Prossimo appuntamento: 25 giugno

Per dimostrare  il culto che ho sempre nutrito per la gloria artistica di Firenze e l’affetto che mi lega a questa città: lascio al Comune di Firenze il Palazzo di mia proprietà di piazza de’ Mozzi, colla galleria di opere d’arte, quadri, statue, armeria e quant’altro è contenuto in detto Palazzo nelle sale adibite alla detta Galleria a piano terreno e primo piano … Esprimo il desiderio che il Comune adibisca ad uso di Museo il Palazzo de’ Mozzi e vi tenga esposta la Galleria da me formata con grande amore in lunghi anni [L’eredità di Stefano Bardini a Firenze. Le opere d’arte, la villa e il giardino, a cura di A. Paolucci, Firenze, Mandragora, 2019, p. 26]

 

Così scriveva nel suo testamento Stefano Bardini, all’età di ottantasei anni, pochi giorni prima di morire il 12 settembre 1922 – esattamente cento anni fa – dopo una lunga esistenza dedicata a cercare, valutare, raccogliere e collezionare oggetti d’antiquariato e pezzi d’arte. Quello che noi oggi conosciamo con il nome di Museo Bardini era all’epoca la galleria d’arte privata di Palazzo Mozzi che l’antiquario Stefano Bardini aveva acquistato fra il 1880 e l’81, insieme a tutto il complesso dell’ex convento di San Gregorio della Pace nell’isolato che sta fra via dei Renai, piazza de’Mozzi e via san Niccolò. Più tardi, agli inizi del Novecento, diventerà di sua proprietà anche l’altro isolato che comprende quattro ettari di terreno sulle pendici della collina di Montecucchi e Costa San Giorgio insieme a una villa, chiamata appunto villa Bardini, che oggi è diventata un centro espositivo sede di mostre contemporanee circondato da uno splendido giardino scenografico con vista ravvicinata sul panorama  fiorentino. Dunque, nel cuore del quartiere di San Niccolò in Oltrarno, tradizionalmente popolato da restauratori e artigiani, l’antiquario Stefano Bardini, desideroso di inserirsi in tale ambiente, aveva adibito Palazzo Mozzi a spazio espositivo, magazzino e laboratorio per la sua collezione mentre la villa su Costa San Giorgio a dimora e suo luogo di rappresentanza. 

Museo Stefano Bardini, in via de’ Renai

Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, in concomitanza con i moti risorgimentali, ai quali Bardini aveva aderito da convinto repubblicano garibaldino, e con il successivo collasso degli ordini gerarchici dell’Ancien Régime che avevano resistito per secoli, si dissolvono i patrimoni delle grandi famiglie nobiliari e di antichi istituti religiosi. Si disperdono così molte collezioni di famiglia raccolte di generazione in generazione. In questa cornice storica, il giovane Stefano Bardini, nato a Pieve Santo Stefano in terra di Arezzo, aspirante pittore formatosi all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, si colloca come figura centrale dell’attività di collezionismo e antiquariato, in particolare, dell’arte italiana d’età medievale e rinascimentale. Approfittando di una situazione storica caratterizzata da un vacuum legis sulla tutela del patrimonio artistico che permetteva la compravendita di beni artistici senza limitazione, si formò intorno a Bardini, considerato il “principe degli antiquari”, un vero e proprio sistema di ricerca e commercio di antichità. All’interno di tale sistema gravitavano antiquari fiorentini minori, raccoglitori e segnalatori, ma anche una colonia di nobili stranieri, artisti, conoscitori, amanti e stimatori dell’arte, quali, tra gli altri, Bernard Berenson nella sua villa I Tatti e Frederick Stibbert. Bardini e i suoi collaboratori ricorrevano anche a una rete di consulenti stranieri per gli affari all’estero dal momento che la miglior clientela era quella internazionale e d’Oltreoceano. 

Il Museo Bardini è stracolmo di quadri e oggetti d’arte: dai pittori fiorentini e senesi ai maestri marchigiani e veneto-lombardi del Quattrocento, che abitano le stanze insieme a cassoni nuziali intarsiati e dipinti e mobili “rinascimentali” dei quali è sempre difficile riconoscere le parti autentiche da quelle reinventate nei laboratori di piazza de’Mozzi. Ci sono pareti intere ricoperte di stemmi delle più diverse provenienze, altre gremite di terrecotte robbiane, di stucchi e di bronzetti. Possiamo anche trovare una collezione di strumenti antichi, tra serpentoni, ghironde, liuti e mandolini, sebbene Stefano Bardini fosse stimato e apprezzato soprattutto come conoscitore della cultura rinascimentale. La “parete delle Madonne” era la parte più rappresentativa della sua collezione: si tratta di una parete ricoperta di rilievi in marmo, in stucco, in terracotta robbiana, tutti raffiguranti la Madonna col Bambino. Sono provenienti da tabernacoli distribuiti in mezza Italia e sono opere di derivazione donatelliana o riconducibili a maestri della sua cerchia.

Il Centro Documentazione Musicale della Toscana (CeDoMus)  all’interno del patrimonio dell’antiquario aretino censisce anche un manoscritto del XVI secolo, contenente le intavolature per strumenti a tastiera di 82 madrigali, mottetti e canzoni. I brani presenti sono databili al 1550 circa e rendono il manoscritto uno dei più preziosi esemplari della musica rinascimentale italiana. Inoltre, le decorazioni sulla legatura in pelle rimandano alla figura della suora bolognese Elena Malvezzi, che probabilmente copiò i brani da stampe dell’epoca. Questo manoscritto costituisce dunque una notevole  documentazione sulla musica diffusa a Bologna intorno alla metà del Cinquecento. 

Tra le stanze del museo

Nel contesto della rassegna “Musei in Musica” organizzata dalla Filharmonie in collaborazione con i Musei Civici Fiorentini e MUS.E., vi invitiamo il prossimo 19 giugno nelle sale del Museo Bardini per ascoltare un concerto eseguito da un trio d’ance e dedicato a tre compositori francesi del Novecento: Jacques Ibert, Darius Milhaud e Eugène Bozza. Anche ciascuno di questi autori, come Stefano Bardini, amò ricorrere alle forme e allo stile musicale del passato per restituirgli nuova vita.

Articolo di Felicita Pacini

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