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Che l’essere umano si sia da sempre interrogato sull’essenza dell’arte musicale è un dato appurato – qui non ci sarebbe sufficiente spazio per parlare di tutte le teorie, speculazioni, filosofie, riflessioni di varia natura che nel tempo si sono raccolte attorno a domande come: qual è il significato della musica? in che rapporto essa sta con le altre arti? quali sono le sue funzioni e i suoi compiti? E così via.

Per restituire ai nostri lettori un’idea della varietà di tali contributi, riporto qui un’esigua rappresentanza di definizioni risultanti da diverse angolature, partendo dall’epoca medioevale con Isidoro da Siviglia: (560-636) «Musica est disciplina vel scientia quae de numeris loquitur, qui inveniuntur in sonis» (La musica è una disciplina o scienza che parla dei numeri, che si trovano nei suoni), proseguendo in epoca moderna con G. Leibniz (1646-1716): «Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi» (La musica è un esercizio matematico della mente che conta senza sapere di contare) e oltre con il Romanticismo, iniziale e tardo: «Art de combiner les Sons d’une manière agréable à l’oreille» di J.-J. Rousseau (1712-1778), «L’arte di esprimere sentimenti mediante suoni» di H. C. Koch (1749-1816), «La musica incomincia là dove si ferma la parola» di H. Heine (1797-1856).

Leggendo queste citazioni così differenti tra loro, si potrebbe pensare che sia impossibile giungere a una determinazione univoca e completa del fenomeno musicale, eppure, a metà Ottocento, un critico musicale e musicologo nato a Praga, ma culturalmente austriaco, Eduard Hanslick (1825-1904), diede un contributo fondamentale perché l’estetica musicale – che era fino ad allora soltanto una riflessione sulla musica dal carattere sporadico e occasionale – si orientasse verso uno studio dei problemi musicali su basi scientifiche e su una loro analisi il più oggettiva possibile. Da qui nacque poi la Musikwissenschaft e, quindi, la nostra Musicologia.

Eduard Hanslick (1825-1904)

In questo articolo presento sinteticamente le prime pagine dell’opera principale, e tanto discussa, di Hanslick, “Vom Musikalisch-Schönen” (“Il Bello musicale”), per farvi assaporare quale fosse il gusto delle questioni estetico-musicali dibattute nella prima metà dell’Ottocento (1854), le quali, interrogandosi sullo statuto dell’opera d’arte musicale, rimangono ancora oggi attuali e in continua evoluzione.   

Il trattato di Hanslick si colloca nel dibattito estetico del suo tempo entro il quale si discutevano i temi-chiave della musicologia tra Sette e Ottocento. In particolare, il critico praghese prendeva le distanze dalla visione ‘romantica’ della musica intesa come esibizione di sentimenti che influiscono sull’animo dell’ascoltatore, una visione che, in quegli anni, era incarnata principalmente dall’opera teatrale wagneriana. Si pensi soltanto al suo  Leitmotiv, il tema musicale ricorrente che poteva essere associato a personaggi, luoghi o precisi stati d’animo cui conferiva un particolare carattere emozionale. Hanslick inizia il suo saggio facendo luce su un equivoco sopra il quale si era basata fino a quel momento l’estetica musicale: «cioè essa non cerca di conoscere cosa sia il bello nella musica, ma fa una descrizione dei sentimenti che questa suscita in noi». Riconducendo queste ricerche agli antichi sistemi estetici che consideravano il bello solo in relazione alle sensazioni, l’Autore  ritiene che queste estetiche non possano giovare «a chi desidera apprendere» e «uscire dall’oscuro dominio del sentimento». Pertanto Hanslick postula di condurre anche l’indagine sul bello secondo una conoscenza il più oggettiva possibile che si avvicini al metodo delle scienze naturali «per provare a cogliere le cose stesse in carne e ossa e di ricercare che cosa vi sia in esse di permanente e oggettivo, prescindendo dalle mille diverse e mutevoli impressioni».
Dopo aver sottolineato che non esiste un concetto generale di bellezza e che ogni arte è inseparabile dalle sue specifiche caratteristiche materiali e tecniche, Hanslick ricorda la regola già stabilita per le altre arti, quella di prendere in esame «l’oggetto bello e non il soggetto senziente». Ma la musica, continua l’Autore, sembra non riuscire a raggiungere questa oggettività e rimane ancorata al mondo delle affezioni. L’Autore evidenzia allora il rischio di ambiguità e vaghezza derivante dalla concezione sentimentale della musica, dalla quale scaturiscono due affermazioni entrambe erronee: che lo scopo della musica sia suscitare sentimenti e che questi ultimi siano il contenuto che essa vuole esibire. Secondo Hanslick, il bello è senza scopo ed è pura forma che rimane bella per se stessa, anche se non suscita sentimenti ed è «per il piacere di un soggetto contemplante». Dopo aver  condotto un’ulteriore distinzione tra il sentimento e la sensazione, l’Autore indica la fantasia come la facoltà con cui si percepisce il bello, in quanto «attività del puro guardare» che si colloca a metà tra l’intelletto e i sentimenti. E, più precisamente, la fantasia si concepisce come un “guardare con intelletto”, ossia è un rappresentare e un giudicare, traducibile in una contemplazione delle forme sonore. 

Un altro errore in cui cadono i musicisti, prosegue Hanslick, è quello di considerare la tendenza di suscitare affezioni un carattere specifico della musica rispetto alle altre arti, in quanto essa agisce sui sentimenti senza la mediazione dei concetti. Dimostrando che non c’è scientificità nel provare a cogliere la differenza fra il grado di intensità affettiva che provoca la musica rispetto a quello provocato dalle altre arti, l’Autore ribadisce che il bello musicale agisce nell’immediato sulla fantasia, poi sui sentimenti e dichiara che il punto focale sta piuttosto nello «stabilire solo il modo specifico con cui tali affezioni sono suscitate dalla musica». E per fare ciò: «bisognerà penetrare all’interno delle opere e spiegare la forza specifica della loro impressione basandosi sulle leggi del loro organismo».

Infine Hanslick dimostra l’insostenibilità dell’effetto della musica sul sentimento come base per un’indagine scientifica. Afferma infatti che «il rapporto di un pezzo musicale con i sentimenti che suscita non è assolutamente causale, poiché questo stato d’animo varia a seconda del diverso punto di vista delle nostre esperienze e impressioni musicali» ed esemplifica come i sentimenti correlati a certi suoni siano mutati nel corso della storia nella ricezione prima di Mozart rispetto a Haydn quindi di Mozart rispetto a Beethoven. Certo la valutazione musicale di alcune composizioni è rimasta inalterata nel tempo, ma rimane un fenomeno troppo variabile su cui poter fondare un principio estetico. Prima di concludere la prima parte, Hanslick ci tiene a precisare che «noi non vogliamo disprezzare i forti sentimenti che la musica sveglia dal loro sonno» ma si pone contro la pretesa antiscientifica di servirsi degli effetti sentimentali come principi estetici col ribadire che «ciò che conta è stabilire la specificità con cui tali emozioni sono suscitate dalla musica». 

Da, Jeu de cartes – Stravinskij

Mi limito qui a ricordare che, quella sulla semanticità della musica, è una vexata quaestio su cui si sono confrontati grandi critici, musicologi e studiosi (da Croce a Massimo Mila a Enrico  Fubini a Carl Dahlhaus, solo per citarne alcuni). E, a titolo illustrativo della diatriba che Hanslick ha ancora il merito di aver aperto più di centocinquanta anni fa, vi propongo un confronto di ascolti tra il wagneriano “Preludio e morte di Isotta”, dove si intersecano molti Leitmotive, e il balletto “Jeu de Cartes” di Stravinskij. L’autore novecentesco che sostenne, almeno da un certo momento in poi del suo itinerario creativo, l’assoluta oggettività della musica, significante solo se stessa, avulsa da possibilità espressive.

Articolo di Felicita Pacini

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