2021-Spazio nell'OdisseaViaggio nei suoni di un viaggio
di Marco Gallenga
UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE
La parola di giugno: VIAGGIO
Prossimo appuntamento: sabato 26 giugno
Il titolo dell’articolo di questa settimana mostra, grazie a un semplice gioco di parole, la visuale anomala attraverso cui affronteremo il tema del mese, il viaggio.
Lo faremo grazie ad un incontro, quello della musica con il cinema, e con un caso specifico: il valzer An der schönen, blauen Donau op. 314, composto da Johann Strauss (figlio) nel 1866 e 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), film del 1968 prodotto e diretto da Stanley Kubrick.
È palese che il film sia uno degli esempi più studiati, analizzati e conosciuti della storia della cinematografia, e che la pretesa di poter aggiungere un’ulteriore analisi esaustiva sia pressoché annullata, ma la scintilla semantica che si innesca con una accurata visione della sequenza in oggetto, resta vivifica per un approfondimento che può continuare ad alimentare un’ulteriore stratificazione della riflessione. L’approfondimento di qualsiasi aspetto di carattere storico, analitico ed episodico riguardo al film e alla colonna musica è ampiamente facilitato dalle numerose informazioni disponibili, sia in internet che attraverso la grande bibliografia a disposizione. Motivo per cui faremo un breve viaggio nel viaggio, ed i bagagli che porteremo saranno quelli del viandante che si affida allo sguardo e all’ascolto, e che attraverso una mediazione sensoriale si appresta ad un cammino che si rivelerà anche interiore.
Partiamo dunque dalla musica e dal suo autore. Johann Strauss, definito in patria “re del valzer”, tradusse in musica la crisi di un popolo: il suo Danubio blu, sfida esaltante al dolore e alla collera, fu scritto poche settimane dopo la sconfitta, catastrofica sul piano simbolico, degli Asburgo ad opera della Germania di Bismarck, tappa decisiva nel processo di disgregazione dell’impero. Ammiratissimo anche in vita, applaudito dagli Stati Uniti alla Russia, fu animatore di eventi da rockstar: quando, nel 1876, lo invitarono a Boston per un concerto che festeggiava il centenario dell’ indipendenza americana, arrivò a dirigere, col supporto di cento sottodirettori, ventimila persone tra orchestrali e coristi, circondato da un trionfo di poster che lo ritraevano troneggiante sul globo terrestre, con la bacchetta al posto dello scettro. Metaforica immagine dell’uomo che attraverso le sue capacità domina il mondo intero, visione che ci connette a stretto giro con la pellicola di Kubrik, sia per la tematica che per l’estetica planetaria.
Johann junior (“l’essere più musicale che io abbia mai incontrato”, disse Wagner) fu incoronato come massimo compositore di valzer di tutti i tempi. “Se il padre pose le fondamenta”, sostiene il professor Franz Mailer, massimo esperto mondiale di Strauss, “il figlio costruì l’edificio. Quando Johann junior cominciò a comporre, il valzer era una forma musicale già molto sviluppata. Lui la condusse al punto più alto: la portò a compimento. Come aveva fatto Mozart con il classicismo settecentesco”.
La familiarità con cui incontriamo e ascoltiamo – per l’ennesima volta – i valzer del celebre compositore austriaco ci fa credere che la loro fama, subitanea e palese, sia proseguita intatta fino ad oggi. Invece allo scadere dei suoi diritti nel 1933 (era morto nel 1899) è iniziata la devastazione: ricerca di effetti, arrangiamenti grossolani o deliranti, “Concerti di Capodanno dove il Danubio blu pareva Puccini” riporta Mailer. Per sgominare i traditori, il professore, negli anni Trenta, creò la Società Johann Strauss, proibita da Hitler nel ’38 “perché non tedesca”. “Compositore austriaco per antonomasia, Johann non poteva risultare gradito a un regime che aveva cancellato la parola Austria dal vocabolario”. L’istituzione riprese a lavorare negli anni Sessanta, ma risale solo al 1992 l’inizio di un progetto editoriale organico. Grazie ad esso è stato possibile scoprire molta musica sconosciuta di Strauss, “non più solo valzer e polke, ma anche pezzi sinfonici romantici, brani per coro e voce solistica e 17 operette inedite”, precisa Mailer. Il recupero e lo studio del repertorio di Strauss ha permesso di capire quanto profondamente il compositore conoscesse la musica d’Europa. Direttore d’orchestra sempre interessato alla musica nuova in arrivo dall’estero, “Johann eseguì Liszt, Wagner, Verdi, Berlioz, Ciaikovskij e anche Offenbach, il suo grande rivale. La sua musica seppe assorbire, filtrandoli genialmente in un prodotto sempre originale, gli influssi di tutti i grandi del suo tempo”. Possiamo affermare senza indugio che grande spinta alla notorietà del genio musicale di Strauss sia giunta proprio grazie alla pellicola di Kubrik, che appena superata la metà del ‘900, rende nuovamente popolare l’opera 314.
Arriviamo dunque alla tappa fondamentale del viaggio, ovvero la sequenza danzante nel film. L’intervento musicale si colloca ad un livello esterno di tipo critico, con cui si ribadisce l’artificio dell’onnipresenza del regista, della sua scelta musicale ed estetica come deus ex machina che manovra e gestisce la componente audiovisiva sovrastando lo spettatore, ma, grazie a soluzioni estreme e spesso rischiose, giunge ad un risultato più profondo, di grande partecipazione che può condurre fino ad un effetto di straniamento.
Tale livello deriva direttamente dall’asincronismo, si basa infatti spesso su discrepanze stilistiche, cortocircuiti semantici, decontestualizzazione estetica. Tutto questo richiede allo spettatore una partecipazione attiva, viene messa alla prova la sua capacità di decodifica.
Ho cercato di creare un’esperienza visiva che andasse oltre la classificazione verbalizzata e penetrasse direttamente nel subcosciente con un contenuto emozionale e filosofico…..Volevo che il film fosse un’esperienza intensamente soggettiva, che raggiungesse lo spettatore ad un livello più interiore di conoscenza, proprio come fa la musica….Siete liberi di riflettere quanto volete sul significato filosofico del film.
Con questa dichiarazione Kubrik esprime chiaramente il suo intento, che relega l’aspetto estetico in secondo piano, rivestendo la componente musicale del compito più arduo nell’ottica di una poetica aperta che sostiene l’intera concezione della pellicola.
La celebre sequenza in oggetto è l’apoteosi del trionfo tecnologico, del controllo tecnocratico e del viaggio di scoperta e conquista. È lecito affermare che è divenuta la sequenza per eccellenza del viaggio nello spazio. Ma Kubrik non si accontenta di un ovvio accompagnamento di musica elettronica (che utilizza con frequenza e disinvoltura), o di un pedante e ridondante sostegno sonoro che dice la stessa cosa delle immagini. Ricerca uno shock sensoriale dal potente substrato concettuale: a livello estetico il valzer – danza in ritmo ternario – accompagna la rotazione dei pianeti e della base spaziale, i quali diventano ballerini siderali a loro insaputa. Non sono forse le coppie dei danzatori, a loro volta, pianeti e satelliti che ruotano? Ma il montaggio della sequenza è costruito con una progressione di punti di vista – dal campo totale esterno alle soggettive reciproche – che tende ad annullare il moto circolare. Quello che il valzer viennese per antonomasia rappresenta è la metafora di una società, quella viennese di fine secolo che è giunta ad un alto livello di ricchezza ed euforia e come tale si trova sull’orlo di un baratro. La danza è – permettiamoci un divertissement – la colonna sonora di un’epoca e di una società che, anestetizzata dalle proprie conquiste, sta peccando di hybris, e ne pagherà le conseguenze. L’accostamento non casuale alla condizione parallela delle due società – quella viennese e quella di un futuro immaginario, ma non troppo lontano – spinge lo spettatore a uno sforzo di decifrazione semantica, senza però l’imposizione di un reticolo cognitivo forzato. La poetica aperta resta valida, non viene fornita una risposta. Alcuni particolari sono incastonati nel diadema visivo, come la penna che galleggia a causa della gravità ridotta, raccolta dall’hostess e riposta nel taschino del viaggiatore addormentato: forse un altro gesto visivo simbolico attuato attraverso l’oggetto rappresentativo della scrittura analogica, contrapposto al trionfo di computer e linguaggio digitale che straborda nel racconto.
L’arrivo della navicella spaziale nella base orbitante, culmine della sequenza commentata dal brano straussiano, assume la valenza della tensione sensuale del valzer stesso, metafora della penetrazione come apice dell’accumulo e sfogo delle energie vitali.
La lucidità con cui vengono semantizzati valori formali nel connubio immagini/musica palesa come il genio artistico di Kubrik abbia aperto uno spazio in cui la componente musicale, seppur non legittimata dalla narrazione stessa, assume un incarico segnaletico denso e stratificato di segnali che lo spettatore è spinto a decifrare per cogliere il senso profondo del messaggio. Un viaggio nel viaggio, un’Odissea nel futuro in cui le sirene, da cantatrici marine assumono le sembianze di un compositore della Vienna dell’Ottocento che ammalia e fa danzare pianeti, navicelle e basi spaziali fino all’ultimo giro di valzer.
Articolo di Marco Gallenga
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