UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE

La parola di giugno: VIAGGIO

Prossimo appuntamento: sabato  luglio 24

Non c’è niente…poiché senza dubbio non c’è stato mai niente, non è mai cominciato niente!

 

Il mondo sonoro creato da Debussy ha senza dubbio segnato irreversibilmente l’evoluzione della musica; la sua ricerca coloristica, timbrica, nonché una nuova libertà nell’organizzazione formale, è stata rivoluzionaria agli albori dello scorso secolo. Considerando la vastità del repertorio debussyiano e la nostra impossibilità di esplorare integralmente tale opus, ci addentreremo in questo mondo pieno di ninfee, di stralci di luce e di rumori della natura attraverso la chiave di lettura particolare data da Jankélévitch, limitando anche i nostri esempi musicali ai Préludes

Questi ultimi sono contenuti in due livres, contenenti ciascuna dodici preludi ed essi sono anche al cuore del libro Debussy e il mistero di Vladimir Jankélévitch. Il filosofo francese è legato al pensiero dell’esistenzialismo ma il suo lavoro di pensatore non può essere apprezzato se lo scindiamo dall’importanza che la musica ha avuto nella sua vita. Egli è pianista e musicologo e sarà proprio la riflessione intorno alla musica, influenzata anche dai concetti bergsoniani di tempo e di élan vital, che gli permetteranno di formalizzare maggiormente il suo pensiero, caratterizzato da concetti quali l’ineffabilità dell’essere e l’importanza dell’intuizione contro un apprendimento sistematico-logico. 

Cos’è dunque il mistero? E’ l’inesprimibile, è ciò che non può essere svelato ed «esso non è più, come il segreto, una ‘cosa’, una res, [un geroglifico, essenzialmente decifrabile], ma un’atmosfera del nostro destino e, letteralmente, un sacramento». Inoltre, il mistero è specifico della musica e ne rimaniamo attratti perché essa è ‘l’espressivo inespressivo’, il ‘quasi niente, proprio come l’esistenza. E qual è il mistero specifico della musica di Debussy? «Il mistero del mezzogiorno, mistero del nulla e dell’immobilità». Nella nostra breve inchiesta sul compositore francese, oggi ci farà dunque da cicerone questo mistero descritto con poetica bellezza da Jankélévitch e tale guida sarà forse garanzia per non perderci nell’enorme universo debussyano.

Debussy e il mistero di Vladimir Jankélévitch

L’immobile di Debussy si riscontra già a un livello formale-accordale. In questa musica manca una concezione di senso, inteso come «movimento orientato nello spazio del divenire e come intenzione espressiva dei pensieri». I preludi sono caratterizzati da brevi istanze e impressioni che non vogliono dire niente, che non hanno la pretesa di divenire segno di un significato: sono segni senza pretesa, sono il ‘Niente-Tutto’. Notiamo infatti, che il compositore non dà veri e propri titoli ai preludi, ma le suggestive parole con le quali noi li chiamiamo oggi vengono posti solo alla fine di ogni preludio a mo’ di postilla.

 Della mancanza di direzione, proprio solo del linguaggio dialettico che qui viene a mancare, è ben rappresentativo ciò che Jankélévitch chiama ‘insularità tonale’. Debussy spesso usa degli accordi perfetti, collegabili a diverse tonalità, sottraendo però questi alle regole gerarchiche proprie della tonalità (funzione modulante o risolutiva); ogni aggregato sonoro è così concepito come un universo a sé, circondato dalla propria aura magnetica. Il silenzio è un elemento centrale delle composizioni debussyiane: esso permette alla tessitura di respirare e di poter così sfuggire il tradizionale discorso musicale caratterizzato dal concetto di sviluppo.  

«C’è tutto un silenzio inframusicale che pervade l’opera di Debussy, ne penetra i pori, distanziando le note e arieggiando I righi musicali; questo non-essere virtuale è in certo senso l’ambiente oceanico nel quale gli accordi respirano. […] questa generale attenuazione di ogni sfumatura dipende insomma dalla presenza del Niente-Tutto».

La precedente descrizione del procedere musicale di Debussy si può riscontrare molto chiaramente nel preludio Canope; gli accordi fermi che incorniciano la miniatura musicale alludono all’antica eternità delle tombe egiziane. Lo troviamo ancora nella successione di accordi perfetti sul pedale del ritmo habanera in La puerta del Vino. Altrove gli stessi accordi stagnanti, o forse sognanti, sono ‘macchie di luce’, come in Terrasse des audiences du claire de lune o ‘riflessi che screziano’. 

L’immobilità, Jankélévitch, la scorge anche nel tono dilettevole del modo maggiore, nelle «oasi di compiacenza» dei preludi Bruyeres e Fille aux cheveux de lin. In questi preludi dal melos piacevole, ci adagiamo in una staticità incantevole, che è propria del mistero canicolare e del mistero di mezzogiorno. Ma cosa intende il filosofo con questo mistero? 

«è a mezzogiorno che bisogna afferrare l’istante appassionante in cui l’esistenza, giunta al culmine del suo percorso, si prepara a ridiscendere la contropendenza. Infatti, il declino comincia a mezzogiorno». 

Il punto meridiano, il sole pieno è l’apogeo dell’essere; ma questa pienezza allo stesso momento implica angoscia in quanto mezzogiorno è l’intersezione di due momenti di attesa – quella mattutina e quella vespertina – nel quale nulla si può più attendere, si spera solo di conservare quell’immobilità che «opprime e ammalia la coscienza invece di colmarla di gioia». Vi è capitato di osservare la quiete natura estiva, piena di luce e pur sentire un’irrequietezza dell’animo, che non sapeva che fare di tale pienezza? Il punto meridiano debussyano è una pienezza che riempie il cuore di angoscia perché sappiamo che essa è caduca, ed è solo un ‘sole moribondo’. Dietro l’apparente immobilità del sole meridiano, dunque, c’è tutta l’angoscia dell’umano. Pensiamo alla presenza del sole nei quadri di Van Gogh; egli ricerca incessantemente la luce gialla del Mezzogiorno ma da quella potenza rischia di bruciarsi lo stesso artista. Come suggerisce Recalcati, il sole reca un doppio significato: da un lato positivo, dall’altro lato mostra «una vitalità perduta, appassita, come intaccata da qualcosa di deleterio e malato». Così la ‘Cosa-Luce’, che è in Jankélévitch il mistero, finisce qui «per presentificare quella potenza maligna della Cosa che ci invade». 

Una simile lettura della musica piena di immaginazione e mito non ci è familiare forse, per quanto bisogna tenere in mente che non si tratti di una speculazione senza il rispetto della partitura. Jankélévitch è un ottimo conoscitore del mestiere del compositore, e dietro la sua penna si può notare un’attenta analisi. La sua scelta, però, è quella di guidarci attraverso uno dei repertori più affascinanti dell’inizio Novecento, senza però svelarcene il segreto. Nel suo linguaggio poetico ed intimo egli rimane fedele al suo credo, secondo il quale «si dovrebbe scrivere non sulla musica ma con la musica e musicalmente, restare complici del suo mistero».

Articolo di Anna Farkas

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