UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE

La parola di marzo e aprile: FOLLIA E VISIONI

Prossimo appuntamento: sabato 3 aprile

Il repertorio operistico è spesso popolato da figure femminili stereotipate. Nel 700’ le donne erano maliziose e furbe, al centro di intrighi amorosi; nell’800, sotto l’egida del Romanticismo, segnate da amori appassionati, in più dei casi tragici e sfortunati. Nel ‘900, invece, secolo di grandi sconvolgimenti non solo in relazione a questo argomento, queste stereotipie e schemi vengono abbandonati lasciando spazio a un quadro più variegato della figura della donna. A ciò sicuramente contribuisce la fortuna della psicoanalisi freudiana e il progressivo abbandono del modello della famiglia patriarcale per un sempre più intenso coinvolgimento della donna in vari strati sociali dai quali precedentemente era esclusa.

Un tema legato al mondo femminile che rimane costante nel vasto repertorio operistico di Leos Janacek (1954-1928) – vera mostra di ritratti psicologici –, nel quale ci addentreremo in questo articolo, è la sensibilità delle donne. Quest’ultime sono sempre state rappresentate come il sesso più debole, fragile, sin dagli antichi greci; per Aristotele la donna «è più compassionevole e incline al pianto rispetto all’uomo, ma anche più gelosa e incontentabile». La cultura moderna, invece, ha creato un altro stereotipo femminile: la donna tentatrice, capace di sottomettere l’uomo con la propria seduzione; e dunque più forte. Nelle opere di Janacek vedremo un variegato mondo femminile, tanto complesso da raccontare. Sarà forse proprio questo insieme di esagerata sensibilità e misteriosa forza ad attrarre l’attenzione di Janacek.

Prenderemo in considerazione in particolare tre opere del compositore ceco che, già a partire dal titolo, mettono al centro le loro protagoniste, Jenufa (1903), Kat’a Kabanova (1921) e L’affare Macropoulos (1925), nonostante sia possibile trovare anche nelle altre sue opere figure femminili di spicco. Janacek è un compositore proveniente dalla Moravia, regione orientale dell’attuale Repubblica Ceca. Le vicende della sua vita, spesso dolorose, come la precoce perdita dei suoi due figli, si rispecchiano nelle sue opere. Similmente lo segnerà il suo difficile matrimonio e il tardo amore con Kamila Strösslová, musa ispiratrice del quartetto Lettere intime. Inoltre, la sua sostanziale estraneità ai circoli intellettuali tedeschi della capitale ceca, Praga – che accolse con sospetto il ‘compositore della provincia’ – gli attribuirà un marchio sulla sua produzione. Janacek proviene in effetti da una piccola cittadina della Moravia, Hukvaldy, lontana dalla Praga cosmopolita; questo mondo rurale giocherà un ruolo primario nel formarsi del suo stile musicale. Egli è un etnomusicologo ante litteram, ma, oltre ad arricchire la sua musica ispirandosi al folklore, egli scoprirà soprattutto l’importanza della lingua ceca, o meglio, le inclinazioni di essa per la composizione.

“Kat’a Kabanova” con la regia di Robert Wilson al Teatro Nazionale di Praga (2010)

L’opera ancora giovanile Jenufa, su soggetto della scrittrice ceca Preissova, si svolge proprio in un piccolo villaggio moravo. L’ambiente bucolico stride profondamente – ed è qui la grande forza dell’opera – con il dramma esistenziale affrontato: l’infanticidio e dunque la perdita di un figlio, tema molto vicino a Janacek. L’opera sarà infatti dedicata alla figlia Olga, che il compositore perderà proprio durante la lunga stesura della composizione. Jenufa, figliastra della sagrestana Kostelnicka (da qui l’altro titolo dell’opera La sua figliastra) rimane incinta del suo innamorato Števa, ma in seguito, sfigurata da una cicatrice inflitta dal suo ammiratore Laca, viene abbandonata e dà alla luce suo figlio in illegittimità. Dopo il parto la ragazza vive isolata su consiglio della matrigna e, quest’ultima, vedendo la vita della ragazza distrutta dall’arrivo del figlio, una notte decide di somministrare dei sonniferi a Jenufa e di uccidere il bambino di nascosto. Dopo che Jenufa si riprende dalla morte del figlio, che lei crede essere stata causata da un malore, rinstaura il fidanzamento con Laca, ma proprio in questo momento viene scoperta la terribile colpa della matrigna: il corpo del bambino viene ritrovato nel torrente fuori dal villaggio.

Le turbe psicologiche della ragazza madre, che si vergogna del suo stato, aggravato dalla cicatrice inflitta sul volto e per la quale viene lasciata dal fidanzato, fanno tutte riferimento ad un mondo patriarcale dove la donna non ha scelte; anche il futuro marito Laca, l’introverso ragazzo solitario del villaggio, presenta comportamenti strani e nervosi. La terza protagonista dell’opera, Kostelnicka, è invece martoriata dal senso di colpa. Questi tre personaggi e il loro stato di confusione è reso musicalmente con il balbettio e la ripetizione: l’insistenza delle parole diviene metafora della psicosi. Il modo di parlare è centrale per Janacek, è ciò che determina i caratteri delle persone. Il canto della matrigna, per esempio, tradisce la sua personalità; ella spesso recita sulla stessa nota, richiamando anche il tono della liturgia cattolica, metafora dell’autorità, della rigidità della sua persona che segna la sorte di Jenufa. L’opera di Janacek, dove per la prima volta vediamo come protagonista una ragazza madre, è dunque un’immersione nel dolore e nella psicologia degli abitanti di un villaggio, dove momenti di autentica festa popolare si alternano a profonde crisi esistenziali: quelli di Laca, di Jenufa, e della matrigna.

 

Mentre Jenufa è una ragazza semplice e buona che, nonostante le avversità, sopravvive con una mente sana – riesce a perdonare il delitto alla matrigna! – la sorte di Kát’a Kabanová è molto più tragica. La trama di quest’opera, su soggetto di Ostrovskij, ci porta in un altro mondo, quello della piccola borghesia mercantile russa, apparentemente meno segnato da disgrazie.

L’opera, si concentra sullo stato mentale tormentato della protagonista Kát’a: sottomessa dalla suocera, la quale la maltratta e la umilia, in silenziosa religiosità, cerca in tutti i modi di rimanere fedele al marito e alla sua famiglia. Alla partenza però di questi per un viaggio di lavoro si trova da sola, con i tormenti della matrigna e la nostalgia della libertà e il desiderio di evasione: cade dunque nelle braccia di un amante, Boris. Al ritorno del marito la donna attanagliata dai sensi di colpa non riesce a trattenersi e racconta al marito e la suocera il suo tradimento. La furia della suocera e la crisi del marito sono l’ultima goccia per una donna ipersensibile, già vicina al crollo, dopo anni di dispotismo familiare. Ella fugge e dopo un ultimo addio all’amante si suicida buttandosi nella Volga. L’unica che rimane vicina a Kat’a e capisce la sua sofferenza è Varvara, la figlia adottiva; sarà lei a fare da complice e ad avvertire l’amante Boris che Kat’ia sta impazzendo. Proprio durante questo dialogo, in una rupe dove la gente si rifugia dalla pioggia, appare Kat’ia, prima del gesto tragico finale, ed è qui che ormai appare a tutti evidente lo stato di delirio della donna.

Kát’a Kabanová è un racconto semplice, vicino alla sensibilità Romantica e proprio per questo è spesso paragonato all’ambiente, sempre russo, dell’Onegin di Puskin. Bisogna però andare oltre al racconto; di fatti lo fa già Janacek effettuando tagli dal dramma originale. Egli non è interessato per esempio all’aspetto sociale del dramma; qui l’intento di Janacek è quello di mettere a fuoco la psicologia turbata della donna che piano piano cede sempre di più a causa del rapporto malato con la suocera. Proprio qualche anno dopo la composizione della Kát’a Kabanová il compositore spiegherà, a proposito del primo quartetto, il fulcro del suo interesse: la vita drammatica di una donna infelice, tormentata dai sensi di colpa.

“L’affare Makropulos” con la regia di Luca Ronconi presso il Teatro Regio di Torino (1993)

Il carattere ipersensibile di Kat’a che non riesce a reggere e a contenere i propri sentimenti stride fortemente con la protagonista dell’Affare Makropulos, l’eccentrica Emilia Marty. Emilia è una superba cantante lirica, capace di affascinare tutti gli uomini con il suo talento e la sua bellezza. Ben presto però gli uomini intorno a lei si accorgono di alcune stranezze: la Marty conosce troppi dettagli del passato e a vederla da più vicino, dietro il sorriso della bellissima donna, si nasconde il volto di un’anziana. Dopo varie complicazioni Emilia, messa alle strette e accusata in un litigio, svela il segreto: suo padre, medico, preparò una pozione magica di lunga vita per il re. La pozione venne sperimentata su di lei permettendole di rimanere in vita per oltre trecento anni, motivo per cui lei fosse a conoscenza di dettagliati avvenimenti del passato, come ad esempio i brutti denti di Danton, le mani sudaticce di Robespierre o le parole di amore e i giochi erotici che il vecchio aristocratico Hauk-Sendorf praticava all’epoca con la bella gitana Eugenia Montez: cinquanta anni prima Emilia stessa.

La Marty, o Montez, MacGregor e Makropulos a seconda dei periodi di vita, è una donna disumana; non perché non viva, anzi, ma perché troppo stanca e annoiata dalle vicende umane – motivo per cui deciderà di non riprendere la pozione nonostante avesse ritrovato la ricetta. Ella è impassibile ai sentimenti, fredda e disinteressata per la notizia di una morte, disillusa dall’amore, nonostante sia una donna seduttrice, come lasciano traspirare le storie raccontate del passato e come ancora la vediamo nell’atto di sedurre per ottenere vantaggi. La Makropulos è l’immagine della femme fatale, un topos femminile di successo, spietata e maligna. Anche qui il libretto tratto dalla commedia di Karel Capek viene ritoccato da Janacek per potersi concentrare meglio sul conflitto interno della Marty: mentre la commedia aveva una vena ironica di critica sociale, Janacek è interessato alla psicologia disfattista e malata della protagonista. L’Affare Makropulos segue l’altra opera Il viaggio di Signor Broucek sulla luna, anche questo un racconto fantastico; si tratta però non di pura fantascienza onirica, ma, con le parole di Franco Pulcini, massimo studioso italiano di Janacek, di un’arte «squisitamente razionale […]; il fantastico serve ad analizzare i meccanismi inumani del mondo reale, a sorprenderne i nonsensi»; proprio come in Kafka e nel suo Processo, il cui ambiente contorto ed inutilmente burocratico è presente anche nel processo messo in scena nell’opera janacekiana.

Forse è questa la chiave di lettura giusta delle vicende narrate da Janacek: immettere all’interno del racconto la più sofferta e dolorosa esistenza del reale, con tutte le sue possibili sfumature. Le donne, con la loro grande sensibilità emotiva, e spesso in una condizione di inferiorità, considerato il periodo del primo 900’ nel quale Janacek compone, divengono l’emblema di questa drammatica esistenza. Tutte le storie femminili messe in scena in queste opere sono in fondo racconti di liberazione dal mondo patriarcale, da antichi pregiudizi e rituali (le continue umiliazioni della suocera di Kat’ia). Frequente è anche il riferimento alla liberazione dai repressi istinti sessuali della donna; Janacek mette spesso in contrapposizione religione – simbolicamente rappresentata dalla severità della matrigna di Jenufa e i rimorsi di Kat’ia – e la natura – rappresentata dalla gravidanza illegittima, dalla tentazione, l’erotismo e il tradimento di Kat’ia.

Il particolare stile della melodia cantata riesce a ritagliare in modo particolare il profilo psicologico di tutti i personaggi. La sua è un’opera lirica non nel termine usuale della parola ma è più un ‘opera parlata’ – non da confondere con lo stile della Sprechgesang schönberghiana – nel quale ogni sillaba è scolpita attentamente. Janacek, infatti, dirà che è dall’intonazione, dalla velocità e dal nervosismo del parlato che si coglie la personalità di un individuo. Il compositore moravo abbandona il semplice stile folkloristico, dando spazio invece alla voce e al suo enorme potenziale musicale, sfruttandola nelle sue numerose opere con maestria tecnica, ma soprattutto con efficacia descrittiva e psicologica.

Articolo di Anna Frakas

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