UNA PAROLA PER MILLE MUSICHE

La parola di marzo e aprile: FOLLIA E VISIONI

Prossimo appuntamento: sabato 27 marzo

Il Macbeth fu la decima opera lirica di Verdi e la prima delle tre, con Otello e Falstaff, su un libretto tratto da Shakespeare. Dopo il successo scaligero del Nabucco nel 1842, il compositore di Busseto proseguì, pazientemente e con tenacia, verso la sua ascesa alla celebrità attraverso quelli che lui stesso definì “anni di galera”. Il Macbeth andò in scena al Teatro della Pergola di Firenze il 14 marzo del 1847, quattro anni prima del Rigoletto, uno dei capolavori appartenenti alla cosiddetta «trilogia popolare», con la quale Verdi concluse il periodo più duro di ricerca e di formazione e iniziò quello più glorioso. Certamente la prima opera nata dall’incontro di Verdi con Shakespeare rappresenta un momento di passaggio fondamentale per il compositore, per mezzo del quale, egli definì meglio il suo stile, interpretando in maniera originale la corrente romantica di quell’epoca. 

Locandina della prima rappresentazione al Teatro della Pergola di Firenze nel 1847

L’opera è divisa in quattro atti, rispetto ai cinque dell’omonima tragedia inglese, e la riduzione librettistica è di Francesco Maria Piave. La struttura portante della composizione è quella tradizionale, anche se Verdi introduce alcune sostanziali novità. La prima è la scelta di un personaggio femminile come quello di Lady Macbeth, con il quale Verdi si avvicinava a quella corrente del secondo Ottocento che professava un’estetica delle forme disarmoniche e degli ambiti emarginati, identificabile con il naturalismo di Zola, il verismo di Verga o il realismo di Balzac. Nelle sue lettere indirizzate a Piave, Verdi scrive che voleva una Lady «brutta e cattiva», che non «cantasse» in senso tradizionale, ma avesse «una voce aspra, soffocata, cupa», che «avesse del diabolico». Una richiesta, quest’ultima, impensabile pochi anni prima, ai tempi di Bellini e di Rossini. Un’altra novità è l’assenza di un intreccio amoroso – convenzionalmente identificato con il triangolo tra soprano, tenore e baritono – a favore di un’azione interiore che indaga gli abissi della psiche dei personaggi. È questo il caso di Macbeth, che a partire dalla profezia delle streghe fino all’epilogo tragico, si logora in un confronto angosciante con la propria coscienza. La traduzione drammaturgico-musicale dell’elemento fantastico, rappresentato dalle tre streghe, fu sicuramente un altro incentivo utile al maestro per mettere a punto le sue idee. Sempre nella corrispondenza epistolare con Piave egli gli richiedeva un testo caratterizzato da «brevità e sublimità» in cui ci fossero poche parole ma ben studiate perché la musica poi sarebbe venuta di conseguenza. Verdi curava con grande attenzione ogni aspetto del dramma, dai costumi, alla recitazione, alla gestualità, perché tutto doveva concorrere all’esaltazione della «parola scenica», capace di essenzializzare il fulcro dell’opera. 

L’atmosfera generale del Macbeth rimane sempre tenebrosa, sinistra, a volte onirica, in perfetta consonanza con il tipo di azioni che si susseguono sulla scena: dalla ridda delle streghe fra lampi e tuoni, all’assassinio notturno del re Duncan da parte di Macbeth su istigazione della moglie, all’ipocrisia che ostentano i due cospiratori di fronte agli altri nobili, alla scena del sonnambulismo, alla battaglia conclusiva di Macbeth, visivamente contro il prode Macduff ma, metaforicamente, contro l’ineluttabilità del destino. Nell’intreccio di tali eventi, si presentano diversi momenti in cui la realtà dei personaggi si mescola a immagini scaturite dalla loro mente, ad apparizioni allucinatorie o a condizioni in cui l’inconscio prende il sopravvento sul resto. Penso, ad esempio, alla scena XI dell’atto I quando davanti a Macbeth, nell’attimo prima di compiere l’omicidio, appare l’«orrenda immago» di un pugnale con l’elsa rivolta verso di lui o alla scena del banchetto (atto II) durante il quale lo spirito del defunto Banquo, ucciso dai sicari di Macbeth, appare e scompare agli occhi di quest’ultimo che, cominciando a vaneggiare e a farneticare da solo, fa la figura, al cospetto degli illustri ospiti, di un povero malato. 

“Lady Macbeth sonnambula” di Johann Heinrich Füssli

Vorrei però qui soffermarmi su un’altra celeberrima scena di quest’opera, quella del sonnambulismo di Lady Macbeth (atto III, scena III-IV).

È notte mentre il medico e la dama di compagnia si sono appostati per cogliere in flagrante Lady Macbeth in uno dei suoi stati di dormiveglia. Ella, dopo aver istigato il marito a vari crimini, è solita vagare con un lume in mano ragionando fra sé e sé. L’introduzione orchestrale dipinge un’atmosfera notturna e di straniamento: comincia il clarinetto solo che, dopo una sinuosa ascensione d’ottava, lascia il posto al corno inglese, inframmezzato da concisi interventi degli archi con sordina. Giunge poi all’orecchio uno dei temi già sentiti nell’ouverture, annunciato dai violini con uno staccato piano e leggerissimo che, attraverso un crescendo dell’orchestra, si sviluppa in una triste melodia ben scandita dalle quartine del fagotto. Nel frattempo, è entrata «lentamente» Lady Macbeth che, poggiato il lume, comincia a sfregarsi le mani come per doverle pulire. Ella ripercorre in maniera discontinua gli istanti nevralgici dell’omicidio in un dialogo immaginario con Macbeth, che continua a rimproverare per la sua codardia e per i suoi timori. Mentre lei rimane prigioniera di un ossessionante rebus che la sua mente non riesce a risolvere: da una parte l’autoconvinzione che ciò che è stato compiuto è cosa fatta e dall’altra la constatazione che quella macchia di sangue sulle sue mani non potrà mai più essere cancellata. Il canto di Lady Macbeth è quasi tutto nel registro grave tranne in alcuni momenti che corrispondono a quelli di maggior intensità del racconto. L’aria comincia con un pianissimo cui subentreranno molti contrasti dinamici, uno per ogni stato d’animo vissuto nel passato con le relative ripercussioni sul presente. L’orchestra che l’accompagna è formata dagli archi, con il loro andamento a volte beffardo a volte drammatico e, in particolare, dal corno inglese che, a intervalli costanti, si fa sentire quasi come fosse il lugubre lamento di un uccello notturno. La presenza, inoltre, dei due testimoni oculari che intervengono con i loro commenti musicali rende ancora più forte il contrasto tra la realtà e lo stato di alterazione mentale in cui si trova Lady Macbeth. Ancora una volta il maestro di Busseto è riuscito a far convergere le diverse dimensioni drammaturgiche, quella musicale, scenica e retorico-vocale, verso un unico e indimenticabile risultato artistico.  

Il Macbeth di Verdi rimane una riproposizione geniale dell’omonimo capolavoro di Shakespeare in cui il compositore è riuscito a tradurre musicalmente il tema della bramosia di potere da parte dell’uomo e delle conseguenze nefaste che si ripercuotono nel suo animo. 

Articolo di Felicita Pacini

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