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Nel capitolo finale del suo libro Sulle ali dell’anima. Viaggio nella musica di Dio (Gribaudi editore, 2006) il teologo bavarese Alfred Läpple parla del rapporto tra silenzio e musica. Una tematica, aggiungo io, che risulta particolarmente affascinante se non ci si limita a considerare i due come enti opposti ma se ci si apre invece all’idea di una loro costitutiva compenetrazione. 

Läpple, che in questo testo si propone di dimostrare una tesi non molto discussa negli studi teologici ossia che Dio è musica, parla de «la benedizione del silenzio» in quanto all’essere umano (diversamente dalle piante e dagli animali) non è stato consentito l’accesso agli infrasuoni e agli ultrasuoni ma è in grado di percepire solo i suoni compresi tra le 16 e le 20.000 oscillazioni al secondo. Dunque l’uomo è un individuo avvolto nel silenzio che è potenzialmente capace di sentire, parlare e suonare uno strumento. Per questo l’autore può constatare che «vi sono ottimi motivi per ritenere che l’equilibrio tra capacità uditiva e impossibilità di udire certi suoni sia alla base della salute e del benessere dell’uomo».

Nelle pagine precedenti Läpple aveva già sottolineato l’importanza dell’ascolto a partire dall’epoca prenatale, nella quale il nascituro concepisce se stesso come essere dialogante con un mondo di suoni che lo circonda, in particolare quando vive l’esperienza della scoperta del battito cardiaco materno e della beatitudine che ne deriva comprendendo che egli non è solo. A questa considerazione si potrebbe accostare la recente tesi formulata dal musicologo Joachim Ernst Berendt secondo la quale si afferma: «Sento, dunque sono».

Mozart dodicenne di T. Helbing (1766-1767)

Con una riflessione di natura più teologica, il professore bavarese vuole invitare a riconoscere l’idea di Dio non solo attraverso l’attitudine razionale e intellettuale tipica della concezione cristiana occidentale, ma a percepire Dio anche come mistero, come «un discorso che non ha mai fine», i cui contorni si delineano meglio quando ogni suono e ogni parola si è persa in lontananza e il silenzio diventa «pienezza dell’indicibile». A questo punto Läpple introduce la nozione di «silenzio mozartiano» ripresa dallo scrittore e regista francese Sacha Guitry che ha detto: «La cosa meravigliosa della musica di Mozart è che anche il silenzio che segue è un silenzio mozartiano». Quante volte capita, ascoltando la musica del compositore austriaco, di sentirsi liberi dalle preoccupazioni e dai problemi del mondo, di sentirsi amorevolmente invitati, accolti e trascinati dai suoni delle sue composizioni. Prosegue Läpple «sembra esservi qualcosa di caratteristico e di inconfondibile che emana dalla musica di Mozart. Una volta che anche l’ultima nota si è spenta, essa continua in qualche modo a risuonare, proprio come un “silenzio mozartiano”, una “beatitudine mozartiana”». Questo silenzio si protrae per pochi secondi dopo la conclusione dell’opera musicale e tali momenti «portano con sé un’efficacia terapeutica, liberatoria, capace di riempire il cuore di felicità, ancora quando non si parlava, né tantomeno si scriveva, di musicoterapia». L’autore conclude auspicando nel pubblico di oggi la crescita di quei non pochi frequentatori di opere e di concerti che, alla conclusione dell’ultima battuta, sprofondano in silenzio nella loro poltrona, ammutoliti dalla bravura del direttore e dei musicisti e grati di fronte al dono musicale. 

 

Credo di poter affermare che Mozart stesso sperava di ispirare nel suo pubblico proprio ciò che Guitry ha espresso. Il genio salisburghese infatti cercava qualcosa di più che l’ammirazione o la ricerca estetica attraverso la sua musica, dal momento che, riguardo alle rappresentazioni del Flauto magico, poteva scrivere: «La cosa che più mi commuove è l’approvazione silenziosa». Presumibilmente Mozart, che mendicava l’attenzione dei suoi ascoltatori, rimase colpito dal raccoglimento generale del pubblico, composto non solo da fini intenditori ma anche da gente comune. A sostegno di quella che Jean-Victor Hocquard chiama «un’attenzione amorosa» ricercata da Mozart durante le sue esibizioni, l’autore francese riporta il brano di una lettera datata 1 maggio 1778 che termina con testuali parole: «Datemi il miglior piano d’Europa ma, come pubblico, persone incapaci di capire o che non vogliono capire niente, che non sentono insieme a me ciò che suono, io non avrò più alcuna soddisfazione a suonare».

In conclusione, si può pensare il silenzio come uno spazio capace di accogliere infinite creazioni musicali dove la sensibilità interiore del compositore si può incontrare e unire con quella di chi ascolta. 

Articolo di Felicita Pacini

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